La Diabaino compie 21 anni e regala a tutti “Marco e Micro – Il Cartoon”

In occasione del suo 21° compleanno, la Diabaino Vip-vip dello Stretto presenta “Marco e Micro – Il Cartoon”, un prodotto fortemente voluto dall’associazione, realizzato dalla “Relative Professional”, che mira a spiegare ai bambini, in particolare quelli in età scolare, cosa è il diabete e come affrontarlo, presentando varie situazioni di vita quotidiana Marco e Micro protagonisti.

Buona Visione!

[embedyt] https://www.youtube.com/watch?v=3KonAzhZ17g[/embedyt]

Valori di riferimento della glicemia

(tratto da: www.diabete.com)

La glicemia è la concentrazione di zucchero (glucosio) presente nel sangue.

Nelle persone non diabetiche la glicemia a digiuno è in genere tra i 60 e i 99 mg/dl.
Dopo i pasti tale intervallo può arrivare fino a 130-150 mg/dl, a seconda della quantità di carboidrati (zuccheri) assunta con la dieta.
In condizioni di digiuno, indipendentemente dalla durata del digiuno stesso, la glicemia di una persona non diabetica non scende mai al di sotto dei 55-60 mg/dl così come, per quanto abbondanti siano i pasti, la glicemia non arriva mai a superare i 140 mg/dl. In genere si ha un valore medio di riferimento di 90 mg/100 ml (5mM).

In una persona a rischio (familiarità, età > 50 anni, obesità, ipertrigliceridemia e/o ipercolesterolemia, ridotta tolleranza a glucosio, etc) è utile eseguire un test da carico di glucosio che è un valido strumento per una diagnosi precoce di diabete; in caso prediabete (alterata glicemia a digiuno e/o ridotta tolleranza al glucosio), il medico richiederà un controllo periodico della glicemia, perché esiste un rischio di sviluppo futuro di diabete.

L’alterata glicemia a digiuno (IFG dall’acronimo Impaired Fasting Glycaemia) non va confusa con l’alterata tolleranza al glucosio (IGT), anche se le due condizioni possono essere associate.
L’alterata glicemia a digiuno si accompagna a insulinoresistenza e a un aumento del rischio cardiovascolare; può evolvere in diabete di tipo 2 conclamato, con un rischio del 50% che tale progressione si manifesti nei 10 anni successivi alla diagnosi.
Se la glicemia è indicativa di diabete conclamato, il medico stabilirà insieme un piano d’intervento personalizzato che comprenda una modificazione della dieta, l’inserimento di una regolare attività fisica e un’eventuale terapia con farmaci, sulla base del tipo di diabete.
Per un diabetico, uno degli obiettivi più importanti è mantenere la glicemia il più possibile all’interno dell’intervallo di normalità durante l’intera giornata. Mantenere quanto più costante possibile la glicemia è importante per assicurare il normale apporto energetico al cervello che – a differenza degli altri organi e dei muscoli – non è capace di immagazzinare riserve di glucosio. Il glucosio presente nel sangue rappresenta quindi l’unica fonte utilizzabile che deve sempre essere disponibile.

Oms: incidenza del diabete

Sonno 422 milioni i diabetici adulti

Nel giro di 35 anni, l’incidenza del diabete è quasi quadruplicata. Nel 1980 i diabetici adulti erano 108 milioni, mentre nel 2014 sono saliti a 422 milioni. È quanto emerge dal “Rapporto globale sul diabete” pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), secondo cui la maggiore diffusione della malattia sarebbe dovuta all’incremento di sovrappeso e obesità. L’Oms evidenzia, infatti, che a causa di stili di vita scorretti, più di un adulto su tre sarebbe in sovrappeso e più di uno su dieci risulta obeso. 

 “Se vogliamo compiere progressi nella lotta contro la diffusione del diabete, dobbiamo modificare le nostre abitudini quotidiane: occorre mangiare in modo sano, praticare attività fisica ed evitare di mettere su troppo peso – afferma Margaret Chan, Direttore Generale dell’Oms -. Anche negli ambienti poveri, i governi devono fare in modo che le persone possano compiere scelte salutari e che i sistemi sanitari siano in grado di diagnosticare e curare le persone con diabete”.

Ecco, nel dettaglio, i principali risultati del rapporto.

1) Il numero delle persone affette da diabete è in crescita in tutto il mondo. Nel 2014, gli individui adulti affetti dalla malattia erano 422 milioni (l’8,5% della popolazione globale), mentre nel 1980 si fermavano a 108 milioni (il 4,7% degli abitanti del pianeta).

2) La diffusione del diabete ha un impatto significativo sui sistemi sanitari e socio-economici delle nazioni di tutto il mondo, in particolare dei paesi in via di sviluppo.

3) Nel 2014 più di un adulto su tre, di età superiore ai 18 anni, era in sovrappeso e più di un over18 su dieci risultava obeso.

4) Le complicanze del diabete prevedono l’infarto, l’ictus, la cecità, l’insufficienza renale e l’amputazione degli arti inferiori. Per esempio, i tassi di amputazione degli arti inferiori sono da 10 a 20 volte superiori per le persone affette da diabete.

5) Nel 2012 il diabete ha causato la morte di 1,5 milioni di persone. Inoltre, nello stesso anno, livelli di glicemia superiori al normale hanno provocato altre 2,2 milioni di morti, perché hanno aumentando il rischio di malattie cardiovascolari e di altre patologie.

6) Il 43% di questi decessi si verifica prematuramente, a un’età inferiore ai 70 anni, e per la maggior parte possono essere prevenuti attraverso l’adozione di politiche volte a promuovere stili di vita sani, una migliore individuazione della malattia e trattamenti più efficaci.

7) Per gestire il diabete in modo corretto occorre seguire le seguenti indicazioni: assumere regolarmente i farmaci, condurre uno stile di vita salutare, effettuare screening regolari e tenere sotto controllo il rischio di complicanze.

di Nadia Comerci s.p. (12/04/2016)
Tratto da Salute 24

 

 

Sindrome metabolica: sintomi e possibili conseguenze.

Non una vera patologia, ma una situazione clinica a rischio per diabete e malattie cardiovascolari.

Scopriamo questa particolare sindrome, la cui definizione si applica nei casi in cui, nel nostro organismo, siano presenti una serie di fattori che possono portare nel tempo ad aumentare i rischi di patologie cardiovascolari, diabete, aterosclerosi e malattie legate al fegato.

Questa situazione di rischio nel tempo è stata definita da differenti appellativi, a seconda delle ricerche effettuate e dai paesi nei quali sono state svolte. Viene detta anche Sindrome X, SM, sindrome da insulino-resistenza, sindrome di Reaven e CHAOS, secondo il sistema sanitario australiano.
In ogni caso, in diversi paesi occidentali già dagli anni Cinquanta è stata studiata la correlazione tra i forti rischi di malattie cardiovascolari e il sovrappeso localizzato nella zona superiore del corpo, intorno al ventre in particolare – che rappresenta il sintomo esterno più evidente della sindrome metabolica.
Sovrappeso a cui possono contribuire la vita sedentaria, l’aumento di assunzione di cibi carichi di zuccheri e grassi, condizioni obesità e ipercolesterolemia.

La sindrome metabolica è, quindi, una posizione clinica rischiosa per il paziente, che potrebbe andare incontro a diverse patologie, nel caso non modifichi il proprio stile di alimentazione e di movimento quotidiano.

I sintomi della sindrome metabolica, esistono?

La sindrome metabolica si individua secondo dei parametri che variano in lieve percentuale in diversi paesi ma che, secondo i criteri stabiliti nel 2005 dalla IDF (International Diabetes Federation), sono riconducibili a determinati fattori, almeno 3 tra quelli indicati:

  • pressione arteriosa alta – oltre 130/85 mm Hg
  • obesità addominale – oltre 94-102 cm di circonferenza addominale (uomini) e 80-88 cm (donne) – variazioni a seconda del gruppo etnico
  • livello alto dei trigliceridi nel sangue – oltre150 mg/dl (ipertrigliceridemia)
  • basso livello del colesterolo HDL – sotto 40 mg/dl (uomo) o 50 mg/dl (donne)
  • livelli di glicemia alta anche a digiuno – oltre 100/110 mg/dl

Diverse organizzazioni sanitarie hanno definito la sindrome metabolica secondo criteri leggermente differenti, magari includendo anche soggetti che possiedono valori non anormali come quelli indicati.

sindrome metabolicaIn ogni caso, la peculiarità di quella che è definita sindrome metabolica, è data dal fatto che non ci sono sintomi rilevanti per questa condizione, che possano allarmare l’individuo, che può ritenersi in salute anche con dei chili in eccesso e una lieve alterazione di glicemia e trigliceridi.

In realtà, questa condizione può essere la spia di future e possibili patologie, quindi è necessario tenere sotto controllo l’alimentazione e provvedere ad una dieta di alimentazione corretta, per poter ritornare nei valori ottimali senza rischi per la salute.

Le conseguenze della sindrome metabolica

Dal diabete alle patologie cardiovascolari, diverse sono le possibili ripercussioni sull’organismo per chi presenza la SM. Un’azione di prevenzione deve essere condotta in particolare per gli adulti al di sopra dei 50 anni, in sovrappeso e a rischio.

Nel nostro corpo un eccesso di grasso porta ad uno squilibrio del metabolismo degli zuccheri e dei grassi, e spesso nel soggetto che soffre di sindrome metabolica, l’eccesso è concentrato nella zona addominale, dove i grassi tendono ad accumularsi. Non solo un problema estetico, quindi, ma anche relativo alla salute.

 

Il rischio diabete

Tali squilibri nel metabolismo degli zuccheri e grassi, portano facilmente alla iper-insulinemia, una elevata presenza dell’insulina nel sangue con minori valori della glicemia – se tutto ciò può sembrare positivo, è da considerare invece una porta d’accesso al diabete mellito, dato che ne deriva una contro-bilanciante situazione di insulino-resistenza, prima fase verso questa patologia.

Le cellule addette alla produzione di insulina, entrano in uno stato di alternanza tra la riduzione dell’azione insulinica dopo i pasti, e la iper-produzione di insulina superiore alla norma (per poter assorbire il glucosio e ristabilire i livelli glicemici alla normalità). Si creano così le condizioni per la patologia diabetica, documentate da studi clinici come altamente rischiose.

Una situazione nociva per la salute che può essere aggravata, per gli affetti da sindrome metabolica, dalla possibilità di predisposizione ad episodi come ictus, infarto da ipertensione, o malattie del fegato e dei reni.

Rimedi alla sindrome metabolica

sindrome metabolica farmaciAll’insorgere di uno stato di sovrappeso e di rischio obesità e sindrome metabolica, è fondamentale adottare uno stile di vita attivo, evitando quello sedentario e l’assunzione di cibi ad alto contenuto di zuccheri e grassi.

Per la sindrome metabolica la dieta per perdere peso e ristabilire gli equilibri, deve essere ovviamente ricca di verdure, frutta, una quantità moderata di carboidrati ed evitare abusi di alcol e fumo. Nozioni basilari in ogni caso per il mantenimento del peso ideale, uno stato di salute e di prevenzione.

Nei casi, però, nei quali si sia già ad uno stato di obesità oppure negli adolescenti in sovrappeso, la sindrome metabolica va curata anche con rimedi più intensi di una modifica di stile di vita o dieta ferrea.

Uno specialista dietologo, delle malattie metaboliche o un diabetologo, potrebbero indicare per i casi più gravi delle cure farmacologiche:

  • farmaci antipertensivi per contrastare la pressione alta, diuretici, calcio-antagonisti o beta-bloccanti
  • farmaci antidiabetici come gli ipoglicemizzanti orali, assunzione di insulina e altri farmaci per la cura del diabete mellito di tipo 1 o 2, secondo i casi
  • farmaci anticolesterolemizzanti per contrastare il colesterolo “cattivo”, come i fibrati, le statine, la niacina, etc.
  • farmaci per contrastare lo stato di obesità, inibitori della lipasi o metabolismo dei lipidi (grassi).

In ogni caso, la prevenzione è fondamentale per evitare situazioni di ipercolesterolemia, ipertensione e obesità che dalla sindrome metabolica, creano in poco tempo situazioni critiche, per questo sono sempre consigliate analisi approfondite e periodiche dei livelli di glicemia, colesterolo, pressione arteriosa e controllo del peso.

Uno specialista della dietologia e delle malattie metaboliche può consigliarvi su quale trattamento o dieta intraprendere per prevenire o curare ogni condizione di squilibrio metabolico.

Pubblicato il 10/4/2015 da

 

Il diabete mellito: cause, sintomi e cure.

Il diabete mellito è una malattia di cui si conosce l’esistenza sin dall’antichità, tanto che il suo nome ha come etimologia la parola diabete (attraverso un sifone) e mellito (miele). Addirittura si ha notizia di questa patologia in Egitto dal 500 a.C.

Anche allora, vista la sua incidenza soltanto tra le classi ricche e più abbienti, si era dell’idea che fosse in qualche modo relazionato ai “peccati di gola” o comunque alla dieta troppo ricca che questi seguivano.

Cos’è il diabete mellito: una definizione.

Il diabete mellito, prima di tutto, è una patologia non curabile che però può essere tenuto a bada se si seguono determinati accorgimenti (dieta, attività fisica, medicinali).

È quindi una malattia cronica che, a causa della iperglicemia (aumento del glucosio nel sangue) dovuto da una ridotta quantità di insulina prodotta dal pancreas oppure dalla combinazione di una ridotta secrezione e la resistenza di alcuni tessuti dell’organismo all’insulina stessa.

In termini più semplici, per comprendere il diabete, dobbiamo sapere che il glucosio è una delle primarie fonti di energia per il nostro organismo, e l’unica per il cervello, e l’insulina è lo strumento che permette l’utilizzo di questa forma di energia.

L’insulina, che è un ormone prodotto dal pancreas, ha anche la funzione di trasportare i carboidrati verso i tessuti dove può essere utilizzato, come fonte di energia, o anche immagazzinato.

La maggior parte del glucosio rimane nel fegato per poter essere utilizzato in caso di bisogno, nella persona affetta da diabete mellito questo, purtroppo, non accade e lo zucchero in eccesso viene trasportato nei reni ed espulso attraverso le urine (glicosuria).

Classificazione del diabete: tipo 1 e tipo2.

Secondo l’American Diabetes Association (ADA) viene fatta una classificazione molto semplice del diabete, tipi 1 e tipo 2. che è quella più comunemente utilizzata anche nel nostro Paese.

alimentazione_sanaIl diabete mellito di tipo 1 compare anche in giovane età, solitamente intorno ai 20 anni ma ci sono casi anche poco dopo il primo anno di età, ed è necessaria la somministrazione di insulina.

I sintomi più comuni, secondo gli esperti, sono:

  • Sete improvvisa e quasi “incontrollabile”.
  • Stanchezza.
  • Necessità di urinare con frequenza.
  • Aumento dell’appetito ma con la tendenza al dimagrimento.
  • Perdita di peso.
  • Difficile guarigione delle ferite, specialmente alle gambe.

Se si dovessero presentare alcuni di questi sintomi è sicuramente utile una visita dal medico di famiglia che potrebbe consigliare, eventualmente, una visita medico specialistica in endocrinologia.

Il diabete mellito di tipo 2 è molto più subdolo, raramente da sintomi chiari come quelli del tipo 1. Infatti, nella maggior parte dei casi, i malati scoprono di avere questa patologia durante visite di controllo per altre ragioni.

I fattori che lo determinano sono, per la maggior parte dei casi, di tipo genetico oppure comportamentale. L’abuso di alcool, fumo, vita sedentaria e obesità, secondo gli esperti, sono condizioni che possono portare all’insorgenza del diabete mellito.

Come si cura?

Dal diabete mellito non si può guarire, ma può essere curato. Il risultato dipende maggiormente dalla volontà del paziente che è tenuto a seguire uno stile di vita più sano e l’uso di medicinali (come l’insulina ad esempio).

Pubblicato il 6/4/2015 da

Diabete: Un problema per milioni di italiani

Il numero di persone con diabete è in veloce crescita sia nei Paesi avanzati sia nei Paesi che hanno da poco iniziato il loro sviluppo economico. Questa impennata nel numero di casi diagnosticati e in quelli stimati è dovuta soprattutto:

  • alle modifiche quantitative e qualitative nell’alimentazione (si mangia di più e peggio);
  • al minor dispendio energetico (il lavoro richiede meno fatica, non ci si muove a piedi, si sta lunghe ore fermi).

Queste modifiche allo stile di vita spesso associate al sovrappeso o alla obesità fanno probabilmente scattare una tendenza geneticamente ereditata a sviluppare il diabete.

Si calcola che in Italia oggi:

  • 3 milioni di persone abbiano il diabete e siano diagnosticate e seguite: si tratta del 4,9% della popolazione;
  • 1 milione di persone abbia il diabete ma non sia stato diagnosticato: è l’1,6% della popolazione;
  • 2,6 milioni di persone abbiano difficoltà a mantenere le glicemie nella norma, una condizione che nella maggior parte dei casi prelude allo sviluppo del diabete di tipo 2. Parliamo del 4,3% della popolazione.

In pratica oggi il 9,2% della popolazione italiana ha difficoltà a mantenere sotto controllo la glicemia. Nel 2030 si prevede che in Italia le persone diagnosticate con diabete saranno 5 milioni.
 

Il diabete nel mondo

Per quanto impressionanti, questi tassi di sviluppo sono inferiori a quelli stimati e registrati in altri Paesi sia occidentali come gli Usa dove si calcola che oggi il 10% della popolazione fra i 20 e i 79 anni abbia il diabete di tipo 2 – l’Asia – dove la percentuale, trascurabile nel 2000, è passata al 7,6% della popolazione (stima 2010) e salirà a 9,1% nel 2030 secondo le stime della International Diabetes Federation. Questo significa 285 milioni di persone con diabete di tipo 2 nel mondo nel 2010 e 438 milioni nel 2030 (stime IDF 2010), con una progressione stimabile in 21 mila nuovi casi ogni giorno.
 

Il diabete di tipo 1

In circa un decimo dei casi il diabete è di tipo 1. Il diabete di tipo 1 può essere considerato la più frequente della patologie rare. Ogni anno si rilevano 84 casi ogni milione di persone in Italia (poco meno di 5 mila casi). Alcune Regioni italiane, in primo luogo la Sardegna, hanno tassi di incidenza superiori alla media europea. Si stima che in Italia circa 250 mila persone abbiano il diabete di tipo 1.
Il numero di persone con diabete di tipo 1 cresce soprattutto perché ormai è possibile garantire a chi segue le cure una attesa di vita sovrapponibile a quella della popolazione generale. Cresce però anche l’incidenza, cioè il rischio di sviluppare il diabete di tipo 1. Anche in altri Paesi avanzati si è riscontrata una crescente incidenza del diabete di tipo 1. Nei Paesi in via di sviluppo invece l’aumento dei casi diagnosticati è da mettere in relazione anche con la migliore capacità di diagnosi e di intervento. Secondo le stime della IDF nel mondo al 2010, 480 mila bambini e ragazzi fra gli 0 e i 14 anni avevano il diabete di tipo 1. Di questi 110 mila in Europa.

Da Diabete Italia

Diversi tipi di diabete

Lo stesso nome: ‘diabete’ o ‘diabete mellito’ viene dato a condizioni diverse con un solo punto in comune: l’iperglicemia. La più frequente è il diabete di tipo 2 ma non meno importanti sono il diabete di tipo 1, quello gestazione e quelli ‘intermedi’ fra 1 e 2.

Si dà il nome diabete o diabete mellito a tutte le situazioni in cui si registra una iperglicemia, vale a dire in cui la glicemia supera i 110 mg/dl a digiuno o 140 mg/dl a due ore da un pasto. In pratica con il diabete il glucosio invece di entrare subito nelle cellule, ‘ristagna’ nel sangue erodendo e infiammando le pareti delle arterie e dei capillari. Nella persona che non ha il diabete l’insulina, prodotta dal pancreas minuto per minuto nella quantità appropriata, permette al glucosio di entrare nelle cellule.
 Diabete di tipo 2

La forma più frequente di diabete è detta diabete di tipo 2 (in sigla DM2 o T2DM), in passato definita erroneamente ‘diabete dell’anziano’ o ‘diabete alimentare’ . In Italia probabilmente oltre 4 milioni di persone hanno il diabete di tipo 2 anche se solo 3 milioni lo sanno. Nel diabete di tipo 2 in una prima fase è necessaria sempre più insulina per far entrare il glucosio nelle cellule. In una seconda fase il pancreas fatica a ‘star dietro’ a questa sovrapproduzione e rilascia meno insulina del necessario. In questa fase si può ‘aiutare’ il processo sia riducendo l’insulinoresistenza (la ‘sordità’ all’insulina delle cellule) sia aiutando il pancreas a produrre le quantità necessarie. Perdere peso alimentarsi in maniera corretta e fare esercizio fisico ottengono risultati rilevanti (più degli stessi farmaci). In una seconda fase (così come alla diagnosi peraltro) può essere corretto affiancare all’insulina prodotta dal pancreas dell’insulina iniettata.
 

Diabete gestazionale

Il diabete gestazionale o gravidico è una forma di diabete di tipo 2 che interviene nella seconda metà o nel trimestre finale della gravidanza. Il diabete gestazione può essere curato solo con l’insulina (unico farmaco ‘sicuro’ in gravidanza). Sembra sparire poche ore dopo il parto. In realtà le donne con diabete gestazione hanno una fortissima probabilità di sviluppare il diabete negli anni o nei decenni seguenti in mancanza di apposite strategie di prevenzione.
 

Diabete secondario

Il diabete può insorgere a seguito di malattie o terapie che colpiscono la produzione di insulina da parte del pancreas o che aumentano molto la resistenza all’insulina. Se la terapia è temporanea il diabete secondario potrebbe regredire una volta terminata la terapia. Chi ha sviluppato un diabete secondario però ha molte più probabilità di sviluppare in futuro un diabete di tipo 2 ‘normale’ anche in assenza della terapia.
 

Diabete di tipo 1

Il diabete di tipo 1 (in sigla DM1 o T1DM), in passato definito erroneamente ‘diabete giovanile’, è una forma di diabete non troppo rara (circa 100 mila casi in Italia) che esordisce nella prima parte della vita (tra i 2 e i 25 anni). Si tratta di una malattia autoimmune: il sistema immunitario distrugge velocemente le cellule che producono insulina. La persona colpita deve quindi assumere dall’esterno tutta o quasi tutta l’insulina di cui ha bisogno in modo da averne a disposizione sempre la giusta quantità.
 

Forme intermedie

Esistono alcune forme di diabete di origine autoimmune come il diabete di tipo 1 nelle quali la persona mantiene una residua produzione di insulina. L’evoluzione della malattia è quindi simile per certi aspetti al diabete di tipo 2. Queste forme caratterizzate da una evoluzione rapida insorgono in ogni fase della vita e sono difficili da diagnosticare con precisione ma sarebbero secondo alcuni studi molto frequenti (molte volte più frequenti del diabete di tipo 1)

da Diabete Italia

Come identificare il Diabete

Glicemia e test di tolleranza al glucosio

Il primo semplice esame da eseguire è la glicemia a digiuno.
Se il valore oltrepassa i 126 mg/dl, in misurazioni ripetute, in giorni diversi si può fare diagnosi di diabete.Se il valore è compreso tra 110 e 126 mg/dl, è necessario approfondire l’indagine con ulteriori esami. Il più comunemente utilizzato è il test di tolleranza al glucosio (carico orale di glucosio), un esame che permette di valutare la capacità dell’organismo di contenere la glicemia entro limiti nomali dopo la somministrazione di un carico orale di glucosio di 75 g (dose standard). (Box Clinica: esecuzione del carico orale di glucosio)
Come abbiamo detto, l’indicazione principale per effettuare una curva da carico orale di glucosio è una glicemia compresa tra 110 e 126 mg/dl, ma esistono anche altre condizioni in cui è il caso di indagare approfonditamente per l’esistenza di altri fattori di rischio: familiarità, obesità, soggetti giovani con manifestazioni neurologiche, aterosclerotiche, coronariche, retinopatiche di cui non sia chiara la causa.

Insulinemia

Il dosaggio dell’insulina (insulinemia) è un altro esame molto importante in quanto permette di stabilire direttamente la funzionalità delle cellule beta del pancreas. La misurazione effettuata durante il test di tolleranza al glucosio ci fa vedere “dal vivo” la capacità dell’organismo di produrre insulina circolante sotto lo stimolo indotto dal glucosio.
Il medico, attenendosi ai criteri riconosciuti dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), potrà interpretare i risultati combinati di glicemia ed insulina, indicando lo stato di normalità, una ridotta tolleranza al glucosio o la presenza di diabete mellito conclamato.

Esame delle urine

Un altra indagine di facile realizzazione e che può essere effettuata anche dallo stesso paziente è l’esame delle urine. Con esso è possibile identificare la presenza di glicosuria (glucosio nelle urine) e chetonuria (presenza di corpi chetonici nelle urine). Se vi è glucosio nelle urine significa come già detto che la glicemia è oltre i 180 mg/dl perché solo oltre questa concentrazione il rene elimina il glucosio con le urine (soglia renale per il glucosio). La glicosuria deve essere effettuata nell’arco della giornata tra un pasto e l’altro, per scoprire eventuali aumenti della glicemia che non siano evidenti a digiuno ma solo dopo i pasti.
La chetonuria è sempre espressione di un grave scompenso metabolico.

C-peptide

Il peptide C è un frammento della molecola originale dalla quale si forma l’insulina. Come si vede nella figura sotto, quando dalla molecola iniziale si produce l’insulina vera e propria viene rilasciato anche il peptide C.

Sequenza di attivazione dell’insulina e rilascio del peptide C

Dalla molecola della pre-proinsulina si distacca prima il peptide segnale, poi si formano i ponti disolfuro (S-S) tra due sequenze peptidiche (proinsulina). Tutto il frammento intermedio tra le due catene legate dai ponti disolfuro, il peptide C, si distacca e resta la molecola di insulina attiva.
Nei pazienti che fanno terapia con insulina, per verificare la capacità secretoria delle cellule beta non possiamo valutare direttamente l’insulinemia, perchè verrebbe misurata anche quella somministrata come farmaco. Possiamo allora valutare la concentrazione di peptide C (che non è contenuto nell’insulina farmacologica), specie nei pazienti affetti da diabete mellito di recente insorgenza, per verificare la capacità residua delle cellule beta di produrre insulina endogena.

Quadro Anticorpale

Dal momento che nel diabete di tipo 1 in fase di esordio si ha spesso la formazione di anticorpi contro vari elementi in causa nella malattia diabetica (cellule beta del pancreas, insulina) si utilizzano test per svelare nel sangue alcuni di questi anticorpi. Questi esami sono effettuati di solito per diagnosticare la fase iniziale del diabete di tipo 1 o per individuare soggetti a rischio di sviluppare questo tipo di diabete.

Anticorpi anti-cellule insulari (ICA, Islet Cell Antibodies)

Questi anticorpi sono presenti in più del 95% dei casi di diabete di tipo 1 in fase iniziale e tendono poi a ridursi sino alla loro scomparsa. Si tende ad attribuire a questi anticorpi un ruolo predittivo della comparsa di diabete: è stato visto che il 50% dei parenti di primo grado (genitori, fratelli, figli) di soggetti con diabete e portatori di anticorpi ICA hanno sviluppato il diabete entro 9 anni dalla loro evidenziazione. Il valore predittivo è ancora più alto (63%) se i soggetti avevano nel sangue anche anticorpi anti-insulina (IAA).

Anticorpi anti-insulina (IAA, Insulin Auto Antibodies)

Questi anticorpi possono comparire in circolo prima dell’esordio clinico del diabete e sono associati ad un elevato rischio di malattia nei parenti di primo grado di soggetti con diabete di tipo 1. Presentano una correlazione inversa sia con l’età sia con la durata della fase preclinica: più elevati sono i livelli di IAA, più rapida sembra essere la progressione verso la malattia, per tale motivo sono un valido marker di predizione della malattia solo in soggetti di età inferiore ai 10 anni. E’ stata osservata un’associazione significativa tra positività autoanticorpale e presenza di HLA DR4.
Questi anticorpi IAA sono importanti per due ordini di motivi. Innanzitutto, sono stati riscontrati in molti soggetti considerati a rischio per il diabete e tale riscontro è spesso parallelo a quello degli ICA descritti precedentemente, aumentando il fattore di rischio per la malattia. Inoltre essi erano alla base di difficoltà terapeutiche quando si utilizzava insulina non di sintesi. La somministrazione di insulina induceva la formazione di questi anticorpi che si legavano ad essa e ne bloccavano l’azione. Poteva però accadere che l’insulina, imprevedibilmente, si liberava da questo legame e poteva indurre crisi ipoglicemiche, in qualunque momento della giornata.
Questi anticorpi si rendevano quindi responsabili di una grave instabilità della malattia. Con l’avvento dell’insulina ricombinante di sintesi, identica a quella umana, questi anticorpi reattivi sono scomparsi.

Anticorpi anti-GAD (GAD Glutamic Acid decarboxylase auto antibodies)

Questi anticorpi sono più sensibili e più specifici rispetto agli ICA. Nell’uomo esistono due isoforme di GAD, che differiscono tra loro per peso molecolare (65kD e 67kD), per derivazione genica e per distribuzione tissutale. La GAD65 rappresenta l’isoforma predominante nelle isole pancreatiche, nelle quali è espressa sia dalle cellule a sia dalle cellule b e sembra localizzata a livello delle microvescicole sinaptiche. Essa è codificata da un gene situata nel cromosoma 2 e presenta un’omologia del 65% con la GAD67. Autoanticorpi antiGAD 65 ed antiGAD67 sono stati riportati nei soggetti sia prima sia ala momento della diagnosi di diabete, tuttavia la GAD65 sembra rappresentar l’isoforma dominante.

Autoanticorpi anti-tirosina fosfatasi insulare IA-2

Sono stati dimostrati in soggetti con diabete di tipo 1 prima ed al momento dell’esordio clinico della malattia, sono autoanticorpi che reagiscono con due proteine insulari di 37kD (IA2) e di 40kD (IA2b). Sono altamente predittivi di futura comparsa della malattia in parenti di 1° grado di soggetti con diabete di tipo 1.

Emoglobina glicosilata (HbA1c)

L’emoglobina glicosilata è un parametro molto utile per valutare il controllo glicemico del paziente. Infatti, mentre la glicemia ci da’ una fotografia “istantanea” della situazione glicemica, l’emoglobina glicosilata è come un “film” che indica se la glicemia è stata ben controllata nei 3 mesi circa precedenti. Questa misurazione si basa sul seguente principio: l’emoglobina, che serve a trasportare l’ossigeno ai tessuti, è contenuta nei globuli rossi, i quali hanno una vita media di 120 giorni. Quando nel paziente diabetico la glicemia si eleva, una parte del glucosio si lega irreversibilmente all’emoglobina (glicosilazione) formando appunto emoglobina glicosilata (HbA1). Questa forma di emoglobina è stabile, fino a quando i globuli rossi non completino il loro ciclo vitale e siano distrutti. Diciamo che in questa proteina, in caso di aumento della glicemia, resta una “traccia” indelebile di quanto è avvenuto. Quindi l’HbA1 è un indice fedele del controllo metabolico che nei diabetici non deve essere superiore al 6-7%.

 Staff Diabaino

Diabete di tipo 2: definizione, fattori di rischio, diagnosi

 Che cos’è il diabete di tipo 2? Quali sono i fattori che maggiormente predispongono all’insorgenza della malattia? Quali le cause?

Il diabete di tipo 2 è una malattia caratterizzata dalla presenza di valori elevati di glucosio nel sangue, a causa di un difetto nell’attività dell’insulina. L’insulina è un ormone prodotto dal pancreas che consente al glucosio di penetrare nelle cellule, essere immagazzinato come materiale di riserva ed essere poi utilizzato quale fonte di energia.

Quando questo meccanismo si altera, il glucosio si accumula nel sangue determinando un aumento eccessivo della glicemia, cioè della quantità di glucosio nel sangue. L’iperglicemia, quando non è curata o non adeguatamente controllata, determina danni a carico di diversi organi, soprattutto sistema cardiovascolare, reni e occhi.

Cause e fattori di rischio del diabete di tipo 2

Il diabete di tipo 2 si manifesta solitamente dopo i 30-40 anni e la sua incidenza aumenta con l’aumentare dell’età. Le cause sono in parte genetiche, in parte determinate da fattori ambientali e stile di vita. Circa il 40% delle persone con diabete di tipo 2 ha parenti di primo grado affetti dalla stessa patologia.

I soggetti predisposti devono porre particolare attenzione nel limitare tutti quei fattori ambientali e comportamentali che favoriscono l’insorgenza della malattia e cioè:

  • Stile di vita sedentario;
  • Ipertensione arteriosa;
  • Sovrappeso e obesità, soprattutto quella centrale, cioè localizzata nella zona dell’addome;
  • Intolleranza al glucosio;
  • Colesterolo alto e/o trigliceridi alti;
  • Essere una donna che ha sviluppato diabete gestazionale e/o partorito un figlio di peso superiore a 4 chili;
  • Alimentazione troppo ricca di carboidrati raffinati.

Sintomi del diabete di tipo 2

Il diabete mellito si manifesta in maniera piuttosto subdola perché, all’esordio, può essere completamente asintomatico. Il paziente si sente bene e non nota niente di strano nelle proprie condizioni di salute.

Ecco perché capita spesso che la malattia venga diagnosticata solo in un secondo momento, quando ha già comportato complicanze a livello degli organi, e che sia quindi scoperta per accertamenti fatti proprio per i sintomi delle complicazioni, per esempio per un calo rilevante della vista o un evento acuto come un infarto.

Diagnosi di diabete di tipo 2

Il diabete si può diagnosticare con un semplice esame del sangue: per parlare di franco diabete è sufficiente che il valore della glicemia a digiuno risulti pari o superiore a 126 mg/dl per due volte consecutive, su test eseguiti in laboratorio. La diagnosi, quindi, non si fa con gli apparecchi ad uso domiciliare che, al massimo, possono fornire l’indicazione ad approfondire.

Talvolta la glicemia a digiuno, pur risultando elevata, non presenta valori tali da poter diagnosticare un franco diabete di tipo 2. In tal caso si esegue un esame particolare detto curva glicemica da carico o curva da carico di glucosio, che consiste nel misurare la glicemia prima e dopo un determinato periodo dall’assunzione di un carico di glucosio; solitamente due ore. In base a come reagisce l’organismo a tale carico di glucosio, cioè in base all’aumento di glicemia che si verifica, il medico può diagnosticare un diabete o un’intolleranza al glucosio, cioè una sorta di pre-diabete, una situazione che non è ancora la malattia, ma indica una forte predisposizione a svilupparla in futuro.

Curva glicemica: test di tolleranza a carico orale di glucosio

 

Curva glicemica OGTT

Utilità della curva glicemica nella diagnosi di diabete mellito

Il test di tolleranza a carico orale di glucosio (OGTT Oral Glucose Tolerance Test) viene utilizzato per porre diagnosi di diabete mellito in presenza di valori glicemici dubbi a digiuno. Ricordiamo, a tal proposito, che l’ADA (American Diabetes Association) ha stabilito il valore di 126 mg/dl come soglia limite oltre la quale (a digiuno) si definisce il diabete; quando i valori glicemici si attestano tra i 100 (American Diabetes Association) – 110 (Organizzazione mondiale della sanità) ed i 126 mg/dl si parla invece di alterata glicemia a digiuno.

 

Come si effettua l’esame e preparazione

Come anticipato, un test molto utile per definire la diagnosi di diabete in presenza di dati equivoci è il cosiddetto test da carico orale di glucosio. Questo esame si basa sulla somministrazione per bocca di una quantità fissa di glucosio in soluzione acquosa, a cui seguono alcuni piccoli prelievi ematici ad intervalli di tempo prestabiliti. Tali campioni sono necessari per la determinazione della curva glicemica (andamento della concentrazione di glucosio nel sangue) ed eventualmente per il dosaggio di altri parametri ematici (insulina ed altri ormoni, come l’hGH, la cui secrezione è influenzata dai livelli glicemici).

Il test di tolleranza a carico orale di glucosio dev’essere eseguito rispettando alcuni criteri:

somministrazione di 75 grammi di glucosio in 250-300 mL di acqua, entro un arco di tempo che va dai 30 secondi ai 5 minuti (nel bambino, o nel paziente di peso inferiore ai 43 kg, la dose di glucosio sarà pari a 1,75 g per Kg di peso);

prelievi ematici prima e due ore dopo l’assunzione, oppure prima e dopo 30′, 60′, 90′ e 120′;

nei tre giorni che precedono l’esame il paziente deve assumere almeno 150 grammi di carboidrati al giorno e sospendere l’assunzione di farmaci che possono intervenire con il metabolismo glucidico;
al momento dell’esame, che viene generalmente eseguito al mattino, il paziente dev’essere a digiuno da 8-14 ore (l’acqua è consentita, ma non gli alcolici o le bevande zuccherate); non si procede se il valore di glicemia a digiuno è > 126 mg/dl.

 

 

Interferenze, valori normali e interpretazione dei risultati

Possono interferire con i risultati del test la presenza di malattie quali ipertiroidismo, ipercorticosurrenalismo, acromegalia, sindrome da malassorbimento e gastroenteropatie. Anche la gravidanza può alterare la curva glicemica, tant’è vero che lo stesso esame, con protocolli simili, viene utilizzato per la valutazione di diabete gestazionale.

Curva glicemica OGTT

criteri interpretativi della curva glicemica sono riportati nella seguente tabella:

 

Livelli glicemici Normale Alterata glicemia a

digiuno (IFG)

Alterata tolleranza
al glucosio
(IGT)
Diabete mellito

(DM)

Plasma venoso Digiuno 120′ Digiuno 120′ Digiuno 120′ Digiuno 120′
(mg/dl) <110 <140 > 110 – <126 <140 <126 >140 < 200 >126 >200
(mmol/l) <6.1 <7.8 > 6.1 – <7.0 <7.8 <7.0 >7.8 >7.0 >11.1

 Curva glicemica OGTT

1999 WHO Diabetes criteria – Interpretation of Oral Glucose Tolerance Test

 NOTE: il riscontro di glicemia superiore a 200 mg/dL dopo due ore da carico di glucosio indica (se confermato una seconda volta) la presenza di diabete mellito anche se la glicemia a digiuno è inferiore a 126 mg/dL.

L’alterata tolleranza al glucosio è una condizione da monitorare costantemente, sia per la possibile evoluzione a diabete mellito, sia per il maggior rischio cardiovascolare rispetto alle persone normoglicemiche. Discorso analogo in presenza di alterata glicemia a digiuno, condizione di per sé meno preoccupante rispetto alla precedente.

Tratto da Viversano

Terapia del diabete di tipo 2 nel paziente anziano

Prof. Giuseppe Derosa – Dipartimento di Medicina Interna, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia – Università degli Studi di Pavia
Centro di Studio e Ricerche di Fisiopatologia e Clinica Endocrino-Metabolica – Università degli Studi di Pavia

Il paziente anziano diabetico è un soggetto particolarmente complicato da gestire, in quanto spesso assume una politerapia, tende a fare confusione con le pastiglie assunte ed è affetto da più patologie. Il paziente anziano spesso presenta complicanze micro- e macro-vascolari e comorbidità gravi dovute alla lunga durata del diabete. Per questo motivo il primo scopo nel trattare un paziente anziano è quello di semplificare al minimo la terapia e cercare di evitare di creare situazioni che possano precludere la sua sicurezza. L’ipoglicemia, ad esempio, è un effetto collaterale comune e pericoloso di alcuni ipoglicemizzanti, può provocare sintomi neurologici come palpitazioni, tremore, fame, sudorazione, fino ad alterazioni dello stato di coscienza, che vanno dalla confusione fino alla perdita di coscienza e al coma nei casi più gravi (1). L’ipoglicemia può anche dare alterazioni del ritmo cardiaco ed è stata associata ad un aumento della mortalità improvvisa su base cardiovascolare (2). Gli episodi ipoglicemici sono particolarmente gravi nel paziente anziano in quanto l’ipoglicemia potrebbe provocare cadute con fratture del femore o fratture costali con possibile danno degli organi interni. Le fratture rappresentano il 61% dei costi legati alle cadute, con le fratture di bacino tra le più frequenti; queste ultime sono le più gravi in quanto vanno ad influenzare la capacità di movimento del paziente. Per queste ragioni i medici dovrebbero intraprendere ogni terapia possibile per evitare l’ipoglicemia.
Nei soggetti anziani questo potrebbe essere ottenuto mirando a ottenere un obiettivo terapeutico un po’ più alto, con un valore di emoglobina glicata di 7.5%, riducendo, così, i segni e i sintomi dell’iperglicemia, come poliuria, fatica e perdita di peso, piuttosto che mirare ad avere una condizione di euglicemia (3).

Metformina

Quando un regime alimentare corretto non è sufficiente a garantire un adeguato compenso glicemico, il farmaco di prima scelta è, in assenza di controindicazioni, metformina (4). Metformina è il farmaco ipoglicemizzante presente da più tempo in commercio, è poco costoso, dà un discreto decremento ponderale, migliora il compenso glicemico senza dare ipoglicemie, riduce la gluconeogenesi a livello epatico e riduce l’insulino-resistenza periferica migliorando l’utilizzazione del glucosio da parte del muscolo e del tessuto adiposo (5). Metformina in monoterapia non determina ipoglicemie e, per questo motivo, rispetto alle sulfoniluree è associata con un minor rischio di eventi cardiovascolari (6).
Pioglitazone

Quando è necessaria una terapia di associazione, la seconda scelta dovrebbe essere pioglitazone, per il suo effetto insulino-sensibilizzante e i suoi effetti pleiotropici. L’efficacia ipoglicemizzante di questo composto si deve essenzialmente alla capacità di raggiungere tessuti e organi insulino-sensibili come il tessuto adiposo, muscolare e il fegato, migliorando l’attività periferica dell’insulina e contribuendo, così, a sostenere l’effetto ipoglicemizzante. Dal punto di vista molecolare questa azione è garantita dalla capacità di pioglitazone di attivare i recettori PPAR-γ, coinvolti nella modulazione trascrizionale di vari geni utili a regolare il metabolismo glucidico e lipidico e a ridurre l’attivazione del processo infiammatorio (figura 1). L’attivazione di tutti questi meccanismi intracellulari si concretizza nella possibilità di ridurre la glicemia, aumentando la disponibilità di glucosio periferico e tissutale, e riducendo il processo infiammatorio, molto attivo a livello vascolare, responsabile di alcune delle conseguenze più importanti della patologia diabetica (7).
Il rischio di ipoglicemie con pioglitazone è praticamente nullo, il che lo rende molto sicuro nel paziente anziano che non abbia problemi di scompenso cardiaco.

 

 

 

 

Sulfoniluree, glinidi, acarbose

Un’altra alternativa è l’uso di sulfoniluree e glinidi, entrambe agiscono legandosi ad uno specifico recettore (SUR) presente sulla membrana delle β-cellule pancreatiche, che determina la chiusura dei canali del potassio ATP-dipendenti, inducendo la depolarizzazione della β-cellula, con conseguente esocitosi dell’insulina dai granuli di deposito (8). Sia le sulfoniluree che le glinidi sono efficaci nel ridurre il valore di emoglobina glicata, ma sono gravate dall’elevato rischio di causare ipoglicemie. I recettori SUR, inoltre, sono presenti a livello dei cardiomiociti e delle cellule muscolari lisce delle pareti vascolari, comprese le coronarie.

 

Pertanto, il legame di questi farmaci a tali recettori extra-pancreatici si potrebbe accompagnare a un aumentato rischio cardiovascolare.
Altra alternativa potrebbe essere acarbose, che agisce inibendo l’enzima alfa-glucosidasi, ostacolando, quindi, l’idrolisi dei disaccaridi a monosaccaridi a livello intestinale (9,10). Ritardando e modulando l’assorbimento intestinale del glucosio, acarbose riduce la glicemia post-prandiale, tale effetto è particolarmente vantaggioso negli anziani. Tuttavia, proprio in virtù del suo meccanismo d’azione, acarbose spesso causa dispepsia, flatulenza, meteorismo, diarrea e dolori addominali che ne fanno interrompere l’uso da parte del paziente.
Inibitori dell’enzima dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4)

Per quanto riguarda l’uso degli inibitori dell’enzima dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4), invece, attualmente sono disponibili quattro molecole: sitagliptin, vildagliptin, saxagliptin e linagliptin. Tutti agiscono inibendo l’enzima DPP-4, con conseguente aumento dei livelli di incretine circolanti (GLP-1 e GIP) e stimolo della secrezione di insulina e inibizione della secrezione di glucagone. I farmaci di questa classe presentano un basso rischio di ipoglicemia e un effetto neutro sul peso corporeo (11). La terapia con inibitori della DPP-4 è di solito ben tollerata e non ci sono significativi effetti collaterali o controindicazioni. L’unico freno all’uso di questi farmaci sono i costi, sicuramente superiori rispetto a quelli delle sulfoniluree.

 

Analisi costo-beneficio e conclusioni

A questo proposito, se facciamo un’analisi costo-beneficio, se analizziamo i costi nel breve periodo, farmaci come pioglitazone o gli inibitori della DPP-4 sono più costosi rispetto alle sulfoniluree.
Tuttavia, se facciamo un’analisi a lungo termine e consideriamo i costi che potrebbero derivare dai numerosi ricoveri per ipoglicemia e per le conseguenze dell’ipoglicemia, pioglitazone e gli inibitori della DPP-4 risultano sicuramente vincenti. Un paziente prima autonomo che diventa un paziente allettato in seguito ad una caduta con frattura di femore per un’ipoglicemia, rappresenta un costo notevole per il sistema sanitario nazionale, in termini di giorni di ricovero e di perdita di capacità funzionale, senza contare il notevole peggioramento della qualità di vita del paziente. Se nel computo dei costi includiamo, poi, anche i familiari costretti a perdere giorni lavorativi per assistere il parente allettato che prima, invece, era autosufficiente, i costi aumentano notevolmente. Per tutti questi motivi, quindi, proprio perché viviamo in un periodo in cui le risorse economiche sono sempre più limitate, bisognerebbe avere una visione proiettata nel futuro e non solo nel presente.
Utilizzare farmaci come pioglitazone o gli inibitori dell’enzima DPP-4 a discapito delle sulfoniluree potrebbe essere una strategia vincente per risparmiare notevolmente sui ricoveri ospedalieri e sui costi legati ad una terapia insulinica, oltre a migliorare la qualità di vita del paziente

 

Bibliografia:
1. UK Hypoglycaemia Study Group. Diabetologia 2007; 50: 1140-1147.
2. Seaquist ER, Anderson J, Childs B et al; American Diabetes Association; Endocrine Society. J Clin Endocrinol Metab 2013; 98: 1845-1859.
3. Munshi MN, Segal AR, Suhl E et al. Arch Intern Med 2011;171(4):362-4.
4. www.aemmedi.it/files/Linee-guida_Raccomandazioni/2010/2010-2010_linee_guida.pdf
5. Cicero AF, Tartagni E, Ertek S. Arch Med Sci 2012; 8: 907-917.
6. McGuire DK, Newby LK, Bhapkar MV; SYMPHONY and 2nd SYMPHONY Investigators. Am Heart J 2004; 147: 246-252.
7. Derosa G. Drugs. 2010; 70: 1945-1961.
8. Sola D, Rossi L, Carnevale Schianca GP et al. Arch Med Sci 2013; in press.
9. Derosa G, Maffioli P. Arch Med Sci 2012; 8: 899-906.
10. Derosa G, Maffioli P. Clin Ther 2012; 34: 1221-1236.
11. Derosa G, Maffioli P. Diabetes Technol Ther 2012; 14: 350-364.

 

 

Tratto da M.D. Media – n. 3/2014