Il paziente con Diabete: mito e realtà

Non c’è dubbio che quando su un argomento come quello dei pazienti con diabete si scrive e si dice tanto si crei nell’immaginario collettiva una immagine più o meno stereotipata.

Molto spesso alla bontà sollecitata, alla comprensione indotta,all’iniziativa auspicata ha fatto seguito la verifica con una realtà individuale molto diversa.  Se è vero come è vero che molti sono gli elementi che accomunano l’essere diabetico e pur vero che l’individualità dell’esperienza e il contesto rappresentano fattori decisivi per una preventiva corretta conoscenza e una successiva attuazione di iniziative.
In poche parole intendiamo dire che spesso ci si è posti nei confronti del paziente diabetico con “immagini” e “piani” individuali.  Per “immagini” vogliamo significare la nostra rappresentazione dell’altro in quanto appartenente ad una nostra cultura e categoria mentale, per “piani” l’attivazione di comportamenti, azioni, emozioni consoni all’immagine di riferimento.  E’ importante perciò cercare di uscire dal mito e incontrare la realtà, certamente coscienti che elementi dell’uno influenzano e sono presenti nell’altro ma che sempre l’incontro e l’azione vanno “tagliati e confezionati” sulla dimensione reale.
E’ con questa avvertenza e con questa attenzione che chiediamo al lettore di porsi per quanto qui di seguito sarà riportato e inerente una particolare popolazione: quelli sofferenti di diabete.

IL RUOLO DI MALATO E LA COMPLIANCE

Come sopra riportato è abbastanza spontanea,oseremmo dire naturale, attendersi che ad una determinata condizione corrisponda una sua categoria psicologica e quindi una conseguenza comportamentale.  Entriamo qui in quello che viene definito il ruolo di malato.  Nello specifico, trovandoci di fronte ad un paziente con patologia cronica,ci si aspetta che questi abbia determinate caratteristiche dell’essere malato ed in particolare malato di diabete.  Pertanto costui dovrebbe attivare pensieri, sentimenti,comportamenti consoni al suo ruolo:quello appunto di malato.  Questa aspettativa non condiziona solo gli altri ma anche il paziente stesso che sente questa aspettativa (anche perché forse in passato egli stesso l’ha proiettata su altri) e può vivere il conflitto tra il suo sentirsi,il suo desiderio di azione e quelle sollecitazioni che gli provengono dal contesto.
Altro elemento importante nella relazione terapeutica a comunque “interpersonale” e di “aiuto” è la compliance.
Col termine anglosassone di compliance si intende l’adesione del paziente al trattamento proposto.  Da alcuni anni anche questo termine e il contenuto culturale e operativo che lo sottende, ha conquistato spazio e considerazione partendo dalla semplice e solo apparentemente strana e sorprendente constatazione che non sempre il paziente segue le indicazioni del medico.  Questa “stranezza” rischia di rimanere tale se non si analizza a fondo la relazione terapeutica,se non si approfondisce la conoscenza della psicologia dell’essere umano e,a maggior ragione, nel caso dei pazienti di cui trattiamo,se non li si consideri persone prima che pazienti.
Il percorso del potenziale paziente inizia con un dubbio (sintomi o segni, consultazione del medica e conferma o meno di malattia), prosegue con delle prescrizioni (farmacologiche, dietetiche, comportamentali ) che sanciscono operativamente il ruolo di malato e dovrebbe chiudersi con una certezza che è appunto la compliance.
Una certezza che proprio perché influenzata da numerosi fattori spesso si trasforma in trasgressione e quindi nel fallimento terapeutico.
Il rischio a questo punto è quello di una generica e vuota colpevolizzazione del paziente che non serve nè al medico nè al paziente stesso.  Come si può notare nelle prescrizioni terapeutiche (e come ciascuno di noi può rilevare dalla sua esperienza sia di soggetto che prescrive che come soggetto che ha ricevuto prescrizioni) una certa parte hanno quelle comportamentali (in queste inseriamo anche quelle alimentari).  Orbene,ognuno di noi deve gran parte del suo esistere e del suo percepirsi persona non sola alla sua capacità cognitiva ed emozionale ma anche alla sua capacità di attivare comportamenti.  Intendiamo dire che ogni comportamento è il frutto di un processo molto più complesso di quello che appare e comporta dei feedback a vari livelli (cognitivo,emotivo, affettivo,sociale ecc.) che consentono una rappresentazione di sé indispensabile per condurre l’umana esistenza.  Sottovalutare tale percezione costruita negli anni o non tener conto della difficoltà di ciascuno di sintonizzarsi nel modo giusta con la necessità del cambiamento, comporta notevoli rischi nell’approccio globale, e diremmo indispensabilmente globale al paziente che,lo ribadiamo,è prima di tutto persona.  D’altronde quanto sia difficile il cambiamento è testimoniato da quanto sostengono i sociologi americani, sempre molto attenti a rilevare gli elementi che accomunano la pur loro pur variegata società: più facile convincere una persona a cambiare religione che non le proprie abitudini.

LE CATEGORIE PSICOLOGICHE
Abbiamo ritenuto necessarie queste premesse e queste precisazioni per poter affrontare quella che riteniamo non sola la descrizione delle categorie di riferimento del vissuto psicologico del paziente diabetico  ma soprattutto fornire già degli assi di riferimento interpretativo e quindi operativo.
 Appare evidente,e   d’altronde è facilmente intuibìle,che ogni descrizione,se da un lato offre la comodità espositiva dall’altro propone una rigidità che deve essere liberata e superata proprio dall’incontro con la “persona”.
Intendiamo dire che non sempre i confini tra un elemento e l’altro sono così netti e definiti e che i singoli elementi possono combinarsi,diluirsi,dissolversi, riproporsi a seconda della persona,del momento,del contesto.
L’abilità del medico, dello psicologo, dell’operatore sanitario e sociale in genere sta proprio in questo:non dare niente per scontato,non lasciassi imprigionare dalle categorie psicologiche (demotivazione,insicurezza,rigidità critica ecc.) ma usarle come assi di riferimento per inquadrare l’attualità della persona, il “qui e ora” della relazione (con la malattia, con il se reale e il se ideale,con la rappresentazione del futuro,con la modalità di relazionarsi con l’ambiente e con l’operatore ecc.). Questo consente l’uscita dalla categoria psicologica come etichetta e consente l’ingresso nella definizione operativa di comportamenti vissuti e conseguenze.  Consente l’abbandono del “luogo comune” e il “prendere le misure” dell’altro per fornirgli il miglior vestito possibile”.  Un “vestito” esistenziale e operativo capace di utilizzare il meglio delle sue caratteristiche e di poter essere sostituito al cambiamento delle condizioni.

RIFLESSIONI OPERATIVE

Con l’esempio figurato soprariportato intendiamo dire che molto spesso le condizioni di limitazione,di sofferenza,di inadeguatezza realmente connesse con la presenza della patologia diabetica possono incidere in modo notevole e concreto.  Sta agli operatori individuarli ed utilizzare non solo le eventuali risorse residue in modo sostitutivo ma anche creare delle alternative operative.
I settori di intervento principale dove operare il riconoscimento del profilo attuale  del paziente e dove operare poi attivamente sono tre:quello individuale,quello familiare e quella sociale (una divisione questa più didattica ed espositiva poiché i vari elementi,nella realtà quotidiana si combinano e si sfumano senza soluzione di continuità).  Occorre poi non sottovalutare. l’eventuale esperienza del ricovero che andrà seguita, ove possibile preparata, e quella che possiamo chiamare la conoscenza,prima ancora che la cultura della condivisione.  Intendiamo dire che spesso,per non dire sempre al senso di solitudine individuale (condizione questa che può accomunare antologicamente tutti gli esseri umani) si accompagna la solitudine con la propria malattia).  Una strana compagna di viaggio che,come ha dichiarato una signora “ti fa sentire sola e abbandonata anche se sai che è lì pronta a colpirti.Una solitudine con la sofferenza, con gli altri che non ti capiscono, che sono pronti a colpevolizzarti se trasgredisci la dieta e altrettanto pronti ad invitarti a farlo nelle occasioni conviviali.  E allora vivi il dilemma: star sola per evitare le tentazioni e alla tua solitudine fisica si accompagna che sei sola con lei,la malattia,oppure accettare di stare con gli altri,con la loro lìbertà,il loro benessere,il loro poter scegliere e fare …. e ti accorgi alla fine che sei sola comunque …. anche in mezzo agli altri”.
Ecco dunque che la conoscenza e la condivisone rappresentano risorse indispensabili da attivare per ridurre e possibilmente stroncare il senso dell’ineluttabile.  Far scoprire o riscoprire capacità e abilità,coinvolgere nella programmazione quotidiana il contesto più prossimo,conoscere i limiti per gestirli e non solo per subirli,confrontarsi e condividere l’esperienza con “i colleghi di malattia” e fornire una possibilità di “navigazione” all’interno della stessa perché insieme si possa diventare “compagni” per vivere gli spazi e non sola per subire le limitazioni,sono obiettivi indispensabili che vanno tenacemente proposti e perseguiti.  Perché essi siano efficaci occorre però conoscere veramente la persona nel senso più ampio del termine.  Il rifugio nel generico, nella ricerca magari di una
personalità comune,l’abbandonarsi alle facili generalizzazioni, alla massificazione,alla colpevolizzazione, inevitabilmente porta alla sconfitta.Una sconfitta denunciata in modo evidente dalla mancata compliance,dal salto degli appuntamenti,dalla dilatazione dei tempi di controllo ecc..

Una visione individualizzata del vissuto di malattia, la conoscenza del contesto,il grado di abilità cognitive e di gestione delle emozioni, la rappresentazione storica e attuale del sè sono gli elementi essenziali che consentiranno dì parlare col paziente e non solo al paziente.  Il rapporto col senso della sua autonomia,con il cíbo,con la terapia farmacologia, le problematiche affettive e relazionali, la visione del futuro e il senso della propria percezione di possibilità progettuale,l’espressione della sessualità e via dicendo saranno gestibili,guidabili,migliorabili solo se da parte del paziente ci sarà la percezione di non essere solo paziente o solo numero o solo cartella.  Ma di essere persona,dignitosamente accolto e rispettato anche nella sua incapacità,nella sua incostanza,nella variazione del suo umore e, perché no, anche nella sua resistenza a restare attaccato ad una immagine di efficienza,libertà,benessere che appartiene ai suoi ricordi.  Un attaccamento che va utilizzato per ancorare le risorse ed amplificarle proiettandole nel presente e non il vuoto rimprovero del tempo che più non c’è.
Un’impresa ardua,difficile che ci accomuna nel cammino al nostro paziente -persona con la differenza che il nostra lavoro lo abbiamo scelto, lui la sua malattia l’ha subita.

Dott. Giuseppe Pipicelli
Dott. Giuseppe Fabiano