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IL PAZIENTE DIABETICO: MITO E REALTA’

20 Febbraio 2015

Non c’è dubbio che quando su un argomento come quello dei pazienti diabetici si scrive e si dice tanto si crei nell’immaginario collettiva una immagine più o meno stereotipata.Molto spesso alla bontà sollecitata, alla comprensione indotta,all’iniziativa auspicata ha fatto seguito la verifica con una realtà individuale molto diversa. Se è vero come è vero che molti sono gli elementi che accomunano l’essere diabetico e pur vero che l’individualità dell’esperienza e il contesto rappresentano fattori decisivi per una preventiva corretta conoscenza e una successiva attuazione di iniziative.

In poche parole intendiamo dire che spesso ci si è posti nei confronti del paziente diabetico con “immagini” e “piani” individuali. Per “immagini” vogliamo significare la nostra rappresentazione dell’altro in quanto appartenente ad una nostra cultura e categoria mentale, per “piani” l’attivazione di comportamenti, azioni, emozioni consoni all’immagine di riferimento. E’ importante perciò cercare di uscire dal mito e incontrare la realtà, certamente coscienti che elementi dell’uno influenzano e sono presenti nell’altro ma che sempre l’incontro e l’azione vanno “tagliati e confezionati” sulla dimensione reale.

E’ con questa avvertenza e con questa attenzione che chiediamo al lettore di porsi per quanto qui di seguito sarà riportato e inerente una particolare popolazione: quelli sofferenti di diabete.

 IL RUOLO DI MALATO E LA COMPLIANCE

 Come sopra riportato è abbastanza spontanea,oseremmo dire naturale, attendersi che ad una determinata condizione corrisponda una sua categoria psicologica e quindi una conseguenza comportamentale. Entriamo qui in quello che viene definito il ruolo di malato. Nello specifico, trovandoci di fronte ad un paziente con patologia cronica,ci si aspetta che questi abbia determinate caratteristiche dell’essere malato ed in particolare malato di diabete. Pertanto costui dovrebbe attivare pensieri, sentimenti,comportamenti consoni al suo ruolo:quello appunto di malato. Questa aspettativa non condiziona solo gli altri ma anche il paziente stesso che sente questa aspettativa (anche perché forse in passato egli stesso l’ha proiettata su altri) e può vivere il conflitto tra il suo sentirsi,il suo desiderio di azione e quelle sollecitazioni che gli provengono dal contesto.

Altro elemento importante nella relazione terapeutica a comunque “interpersonale” e di “aiuto” è la compliance.

Col termine anglosassone di compliance si intende l’adesione del paziente al trattamento proposto. Da alcuni anni anche questo termine e il contenuto culturale e operativo che lo sottende, ha conquistato spazio e considerazione partendo dalla semplice e solo apparentemente strana e sorprendente constatazione che non sempre il paziente segue le indicazioni del medico. Questa “stranezza” rischia di rimanere tale se non si analizza a fondo la relazione terapeutica,se non si approfondisce la conoscenza della psicologia dell’essere umano e,a maggior ragione, nel caso dei pazienti di cui trattiamo,se non li si consideri persone prima che pazienti.

Il percorso del potenziale paziente inizia con un dubbio (sintomi o segni, consultazione del medica e conferma o meno di malattia), prosegue con delle prescrizioni (farmacologiche, dietetiche, comportamentali ) che sanciscono operativamente il ruolo di malato e dovrebbe chiudersi con una certezza che è appunto la compliance.

Una certezza che proprio perché influenzata da numerosi fattori spesso si trasforma in trasgressione e quindi nel fallimento terapeutico.

Il rischio a questo punto è quello di una generica e vuota colpevolizzazione del paziente che non serve nè al medico nè al paziente stesso. Come si può notare nelle prescrizioni terapeutiche (e come ciascuno di noi può rilevare dalla sua esperienza sia di soggetto che prescrive che come soggetto che ha ricevuto prescrizioni) una certa parte hanno quelle comportamentali (in queste inseriamo anche quelle alimentari). Orbene,ognuno di noi deve gran parte del suo esistere e del suo percepirsi persona non sola alla sua capacità cognitiva ed emozionale ma anche alla sua capacità di attivare comportamenti. Intendiamo dire che ogni comportamento è il frutto di un processo molto più complesso di quello che appare e comporta dei feedback a vari livelli (cognitivo,emotivo, affettivo,sociale ecc.) che consentono una rappresentazione di sé indispensabile per condurre l’umana esistenza. Sottovalutare tale percezione costruita negli anni o non tener conto della difficoltà di ciascuno di sintonizzarsi nel modo giusta con la necessità del cambiamento, comporta notevoli rischi nell’approccio globale, e diremmo indispensabilmente globale al paziente che,lo ribadiamo,è prima di tutto persona. D’altronde quanto sia difficile il cambiamento è testimoniato da quanto sostengono i sociologi americani, sempre molto attenti a rilevare gli elementi che accomunano la pur loro pur variegata società: più facile convincere una persona a cambiare religione che non le proprie abitudini.

 LE CATEGORIE PSICOLOGICHE

Abbiamo ritenuto necessarie queste premesse e queste precisazioni per poter affrontare quella che riteniamo non sola la descrizione delle categorie di riferimento del vissuto psicologico del paziente diabetico ma soprattutto fornire già degli assi di riferimento interpretativo e quindi operativo.

Appare evidente,e   d’altronde è facilmente intuibìle,che ogni descrizione,se da un lato offre la comodità espositiva dall’altro propone una rigidità che deve essere liberata e superata proprio dall’incontro con la “persona”.

Intendiamo dire che non sempre i confini tra un elemento e l’altro sono così netti e definiti e che i singoli elementi possono combinarsi,diluirsi,dissolversi, riproporsi a seconda della persona,del momento,del contesto.

L’abilità del medico, dello psicologo, dell’operatore sanitario e sociale in genere sta proprio in questo:non dare niente per scontato,non lasciassi imprigionare dalle categorie psicologiche (demotivazione,insicurezza,rigidità critica ecc.) ma usarle come assi di riferimento per inquadrare l’attualità della persona, il “qui e ora” della relazione (con la malattia, con il se reale e il se ideale,con la rappresentazione del futuro,con la modalità di relazionarsi con l’ambiente e con l’operatore ecc.). Questo consente l’uscita dalla categoria psicologica come etichetta e consente l’ingresso nella definizione operativa di comportamenti vissuti e conseguenze. Consente l’abbandono del “luogo comune” e il “prendere le misure” dell’altro per fornirgli il miglior vestito possibile”. Un “vestito” esistenziale e operativo capace di utilizzare il meglio delle sue caratteristiche e di poter essere sostituito al cambiamento delle condizioni.

 RIFLESSIONI OPERATIVE

 Con l’esempio figurato soprariportato intendiamo dire che molto spesso le condizioni di limitazione,di sofferenza,di inadeguatezza realmente connesse con la presenza della patologia diabetica possono incidere in modo notevole e concreto. Sta agli operatori individuarli ed utilizzare non solo le eventuali risorse residue in modo sostitutivo ma anche creare delle alternative operative.

I settori di intervento principale dove operare il riconoscimento del profilo attuale del paziente e dove operare poi attivamente sono tre:quello individuale,quello familiare e quella sociale (una divisione questa più didattica ed espositiva poiché i vari elementi,nella realtà quotidiana si combinano e si sfumano senza soluzione di continuità). Occorre poi non sottovalutare. l’eventuale esperienza del ricovero che andrà seguita, ove possibile preparata, e quella che possiamo chiamare la conoscenza,prima ancora che la cultura della condivisione. Intendiamo dire che spesso,per non dire sempre al senso di solitudine individuale (condizione questa che può accomunare antologicamente tutti gli esseri umani) si accompagna la solitudine con la propria malattia). Una strana compagna di viaggio che,come ha dichiarato una signora “ti fa sentire sola e abbandonata anche se sai che è lì pronta a colpirti.Una solitudine con la sofferenza, con gli altri che non ti capiscono, che sono pronti a colpevolizzarti se trasgredisci la dieta e altrettanto pronti ad invitarti a farlo nelle occasioni conviviali. E allora vivi il dilemma: star sola per evitare le tentazioni e alla tua solitudine fisica si accompagna che sei sola con lei,la malattia,oppure accettare di stare con gli altri,con la loro lìbertà,il loro benessere,il loro poter scegliere e fare …. e ti accorgi alla fine che sei sola comunque …. anche in mezzo agli altri”.

Ecco dunque che la conoscenza e la condivisone rappresentano risorse indispensabili da attivare per ridurre e possibilmente stroncare il senso dell’ineluttabile. Far scoprire o riscoprire capacità e abilità,coinvolgere nella programmazione quotidiana il contesto più prossimo,conoscere i limiti per gestirli e non solo per subirli,confrontarsi e condividere l’esperienza con “i colleghi di malattia” e fornire una possibilità di “navigazione” all’interno della stessa perché insieme si possa diventare “compagni” per vivere gli spazi e non sola per subire le limitazioni,sono obiettivi indispensabili che vanno tenacemente proposti e perseguiti. Perché essi siano efficaci occorre però conoscere veramente la persona nel senso più ampio del termine. Il rifugio nel generico, nella ricerca magari di una

personalità comune,l’abbandonarsi alle facili generalizzazioni, alla massificazione,alla colpevolizzazione, inevitabilmente porta alla sconfitta.Una sconfitta denunciata in modo evidente dalla mancata compliance,dal salto degli appuntamenti,dalla dilatazione dei tempi di controllo ecc..

 Una visione individualizzata del vissuto di malattia, la conoscenza del contesto,il grado di abilità cognitive e di gestione delle emozioni, la rappresentazione storica e attuale del sè sono gli elementi essenziali che consentiranno dì parlare col paziente e non solo al paziente. Il rapporto col senso della sua autonomia,con il cíbo,con la terapia farmacologia, le problematiche affettive e relazionali, la visione del futuro e il senso della propria percezione di possibilità progettuale,l’espressione della sessualità e via dicendo saranno gestibili,guidabili,migliorabili solo se da parte del paziente ci sarà la percezione di non essere solo paziente o solo numero o solo cartella. Ma di essere persona,dignitosamente accolto e rispettato anche nella sua incapacità,nella sua incostanza,nella variazione del suo umore e, perché no, anche nella sua resistenza a restare attaccato ad una immagine di efficienza,libertà,benessere che appartiene ai suoi ricordi. Un attaccamento che va utilizzato per ancorare le risorse ed amplificarle proiettandole nel presente e non il vuoto rimprovero del tempo che più non c’è.

Un’impresa ardua,difficile che ci accomuna nel cammino al nostro paziente -persona con la differenza che il nostra lavoro lo abbiamo scelto, lui la sua malattia l’ha subita.

BIBLIOGRAFIA

1)    BRUNO R.: Problemi psicologici del diabete. – in “Il diabete in Ospedale”, Gherardini editore, Milano 1990.

2)      CORRADIN ERLE H.: Metodologia dell’educazione sanitaria e sociologia della salute. – C. E.A. 199 1.

3)      FABIANO G.: La dimensione psicologica del concetto di qualità di vita. – Atti Società Med.- Chir. Calabrese 1987

4)       FABIANO G. D’AMICO N.  Medico e psicologo: analisi e risultati di una esperienza in una Divisione di Medicina

Generale. – Atti Soc. Med.-Chir.Cal. 1992.

5) FABIANO G., D’AMICO N.           Il vissuto e l’immagine della malattia diabetica in due gruppi di pazienti ospedalizzati. -Atti IV Congresso Nazionale GISED – Soverato (CZ) 30-31/10/92

6) FAVALES F.   Controllo e autocontrollo del diabetico ricoverato. – in “Il diabete in Ospedale” Gherardini editore,Milano 1990.

7) PIPICELLI G. Il diabetico anziano, questo sconosciuto.- Editoriale BIOS 1993.

8) SANSONE F.: La compliance. – in “Medico e Diabete”,n.34,1991,pp.40-43.

9) PIPICELLI G.: Il diabetico anziano questo sconosciuto tre anni dopo – Editoriale Bios 1996

 a cura di  Giuseppe Pipicelli – Giuseppe Fabiano

 

 

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Diabete Mellito: aspetti psicologici

20 Febbraio 2015

Quando una persona si trova di fronte alla diagnosi di diabete ha una reazione di sgomento che arriva a toccare la paura. L’immagine di un futuro buio si disegna chiara nella mente. Uno choc non indifferente; in un attimo arrivano alla mente tutte le “dicerie”, le voci, che da sempre vivono e corrono attorno alla malattia. Luoghi comuni dell’ignoranza che dipingono la malattia con tutte le tinte fosche della maledizione; immagini che denunciano la presenza, ormai inaccettabile, di una grossa ignoranza che impera sulla conoscenza della malattia. Se l’ignoranza fosse alimento, nel mondo non ci sarebbe più la fame.

Il primo obiettivo, la prima difficoltà da affrontare è rompere il muro delle paure attraverso una corretta informazione sulla malattia, la sua origine, le possibili cause. In maniera altrettanto semplice è quindi necessario informare la persona sulle cure e le metodiche. Infine indicare come e quanto incide la malattia sulla vita quotidiana: studio, lavoro, amici, hobby, tempo libero, abitudini alimentari etc.

Una corretta informazione, basata sui dati della ricerca scientifica e sostenuta da testimonianze reali permette di affrontare le reazioni emotive in maniera completamente diversa al punto da riuscire a contenerle.

Sfrondate le paure dai terribili luoghi comuni la persona inizia con molta serenità un processo di avvicinamento a nuove abitudini di vita ed autogestione che, in fondo, non sono poi così complesse.

Non mi è mai piaciuto il ritornello di alcuni medici: “devi convivere con la malattia”. Chi caspita mai sceglierebbe di andare a scegliersi per compagna una malattia? E’ una forma che suona molto passiva che ha il gusto, pessimo, della rassegnazione. La persona invece deve imparare a gestire al meglio la malattia per essere in condizioni di soddisfare il più possibile le proprie esigenze. Ottenere il massimo di adattamento nel vero senso del termine psicologico; come per tutte le persone.

Paradossalmente, aggiungo, la persona che impara a gestire il diabete in fondo non fa altro che adottare uno stile di vita sano che migliora la sua condizione generale. Cosa che molti altri non fanno. Dovrebbe essere compito di ognuno prendersi cura del proprio stile di vita e non pensare solamente, una volta l’anno, alla “prova costume” per tornare in riga – o in linea – con la nostra personalità.

Tornando al nostro tema: la diagnosi genera reazioni emotive che possono variare, oscillare, da lievi o moderate a quelle più serie raffigurabili, in genere, come risposte allo stress: dalla tensione nervosa alla malinconia; dall’ansia al disturbo del tono di umore, dalla collera all’isolamento e fuga dagli altri. Un ventaglio di reazioni legittime, naturali, che necessitano di essere affrontate e risolte in quanto, a lungo andare, possono degenerare in forme più gravi o funzionare da catalizzatore della malattia diabetica.

La sfera psicologica dell’individuo necessita di un sostegno adeguato non solo per attutire “il colpo” e metabolizzare l’evento diabetico ma soprattutto per evitare che si possano avviare processi psicologici in grado di smontare la propria immagine e minare la propria autostima. Non è raro che un soggetto maturi, lentamente e inconsapevolmente, la convinzione di essere diverso, di essere un ostacolo ai programmi di vita del partner, di rappresentare un peso per la famiglia, un limite e non poter avere una vita normale. Di pensare di creare un rallentamento al gruppo cui vorrebbe appartenere e quindi sceglie di isolarsi incominciando a odiare le relazioni per paura di suscitare pietà. Talvolta capita che anche le persone che mostrano di minimizzare il problema e di saperlo affrontare, spesso, intimamente, non lo dimenticano e “macinano” pensieri che non vengono mai partecipati ed azzerati. Col tempo il paziente diventa silenzioso consumandosi lentamente da dentro senza accorgersi, quasi, di niente.

Il problema a questo punto si alimenta, si amplifica. L’autostima cade a livelli bassi producendo inadeguatezza esistenziale che favorisce l’abbassamento delle difese immunitarie naturali. L’isolamento sociale e familiare viene accentuano diventando stile di vita; la sensazione di esclusione e di emarginazione prende il sopravvento.

Ecco perché abbiamo formato un Team diabetologico in grado di affrontare la malattia da diversi punti di vista, di forza, per meglio affrontarla e contenerla. Non è più possibile, né immaginabile, pensare di non considerare, sottovalutare o limitare l’importanza della componente sociale e psicologica del paziente. Bisogna considerare e valutare i dubbi, le paure, i timori, le preoccupazioni, i giudizi e tutte le ansie che ne derivano. E’ umano e come tale da considerare ed educare. Nessuno nasce educato tantomeno ad affrontare le malattie. Bisogna imparare.

L’educazione terapeutica ha lo scopo di mettere al centro del rapporto la relazione del paziente con la malattia, con gli specialisti e soprattutto con l’intero ambiente sociale. Concludo citando i risultati di una recente indagine sperimentale: è stata riscontrata una grossa correlazione tra una serie di miglioramenti dei parametri fisiologici della malattia (per es. HbA1c) con una efficace comunicazione fra team diabetologico e paziente. Inoltre è stato registrato un evidente miglioramento dello stato emotivo, tono dell’umore, e della qualità generale di vita della persona con diabete.

Questo è il nostro augurio.

di Renato Gentile 

* Università degli Studi di Parma

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